THE DEAD DON’T HURT – I MORTI NON SOFFRONO
- saraga
- 25 ott 2024
- Tempo di lettura: 3 min
Aggiornamento: 10 giu
Viggo Mortensen regista, con il suo western contemporaneo, ci spinge a interrogarci sulla violenza: in un’epoca liminale come la nostra, nella quale la violenza sia pubblica che privata si riaffaccia prepotentemente nelle cronache di politica e di vita quotidiana, parlarne tramite il western risulta molto efficace e ne consente una trasposizione tematica forte.
È un western introspettivo e contemporaneo quello che ci propone Viggo Mortensen da regista: un film sofisticato, ma anche crudo e diretto, come solo un western sa essere. E si direbbe che Mortensen – bravissimo attore – abbia imparato dai migliori come regista: debitore a Quentin Tarantino nella struttura della narrazione, ci consegna una trasposizione veritiera del tema della violenza, che ci porta a pensare a film quali A History of Violence (2005) di David Cronenberg, per il quale Viggo ha recitato innumerevoli volte sempre in maniera eccelsa. Non solo: The Dead Don’t Hurt – I morti non soffronosembra, nello spirito e nell’intento, molto vicino alle atmosfere della recente epopea di Kevin Costner, Horizon – An American Saga.
Pur con un focus più concentrato sulla violenza e sull’importanza dell’amore, il bel western di Mortensen ha in comune con Horizon l’aspirazione a consegnare allo spettatore uno sguardo più riflessivo o contemplativo, senza nulla togliere alla cifra distintiva del genere.
L’irruzione della violenza nella quotidianità
Come dicevamo, oltre ad essere un western, The Dead Don’t Hurt è soprattutto una riflessione articolata e contemporanea sulla violenza (ma anche sull’amore): nella versione di Mortensen la violenza è qualcosa che letteralmente “insegue” i protagonisti; lontano dalle facili retoriche contemporanee sulla tossicità delle relazioni e sulla corresponsabilità delle vittime, Viggo sa mostrare come la violenza – quella autentica – abbia in sé qualcosa di atavico e primordiale, e come l’unica via di fuga – senza voler essere scontati – sia l’amore.
La storia è relativamente semplice, ma anche significativa: una giovane donna franco-canadese, Vivienne (interpretata da Vicky Krieps) – orfana di padre – contrasta la povertà come può vendendo fiori; le si avvicinano vari pretendenti, ansiosi di approfittarsi della situazione di vulnerabilità economica della donna. Quello che riesce a rubarle il cuore sarà però un uomo più grande (uno straniero), Olsen (Viggo Mortensen), cowboy dalla vita modesta e onesta. Proprio qui, però, inizieranno i problemi: la violenza saprà irrompere nuovamente nella quotidianità di entrambi, loro malgrado.
Un andamento circolare
Dall’incipit del racconto è chiaro come la struttura narrativa non abbia un andamento lineare, ma segua la lezione di Tarantino, alternando vari piani temporali e diversi scenari. The Dead Don’t Hurt parte infatti dalla fine, ricostruendo man mano gli avvenimenti da varie angolazioni e prospettive in una struttura circolare, senza una precisa consequenzialità, se non quella tematica. Scelta stilistica, questa, che sa catturare e tenere sulle spine lo spettatore, ma più di ogni altra cosa, ha il ruolo di esemplificare l’irruzione della violenza nella quotidianità.
Mortensen ha in questo un approccio antropologico: ci presenta la violenza come un fatto e non come qualcosa da spiegare; non resta quindi che raccontare l’amore, quello semplice e asciutto tra Vivienne e Olsen.
In conclusione, possiamo affermare che la prospettiva di Mortensen regista sia quella di una poetica ermetica, semplice ma molto strutturata. In The Dead Don’t Hurt lo spettatore viene messo da subito di fronte al fatto “crudo”, ossia la morte, lasciandogli poi scoprire poco a poco quale sia il tipo di violenza che mano a mano – come una goccia che scava nella roccia – ha portato a questa morte prematura: è perciò una provocazione più che attuale verso ogni forma di violenza, ma anche un grido di speranza, verso un amore che sa resistere e sa fiorire.

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